Decision Making
La competenza decisionale nel ruolo manageriale
Il Decision Making per contrastare bias cognitivi e risparmiare risorse
Nell’arco della giornata, siamo tutti tenuti a “prendere decisioni”, processo che rappresenta uno dei comportamenti umani più frequenti. Le conseguenze delle scelte, soprattutto in ambito professionale ricadono certamente su noi stessi, ma anche sull’organizzazione, sui colleghi, sui superiori e sui collaboratori, nonché sui risultati operativi dell’attività. Migliorare le strategie di pensiero e la propria competenza decisionale diviene dunque di fondamentale importanza, dal momento che i risultati ottenuti sul lavoro si rivelano spesso la conseguenza delle macro o micro-decisioni prese.
Overview
- La scienza ci dice che sono in media 158 le decisioni rilevanti che ci troviamo a prendere quotidianamente. Quante di queste possono essere definite come “buone decisioni”? A chi non è mai capitato di sottostimare il tempo da dedicare al completamento di un progetto, oppure di confidare eccessivamente nelle proprie capacità di trovare soluzioni a problemi?
- Una parte significativa delle decisioni prese risulta essere inefficace, poiché guidata eccessivamente da euristiche e bias cognitivi. Nel quotidiano dell’esperienza privata e professionale, infatti, ci affidiamo a processi cognitivi attraverso cui rappresentiamo la realtà in maniera rapida ed intuitiva e, come tale, spesso approssimativa e fuorviante.
La competenza decisionale
Basandosi sulle ricerche nel campo della psicologia dello sviluppo, Miller e Byrnes (2001) hanno definito e valutato il costrutto della competenza decisionale (DMC, sigla che sta per Decision Making Competency), che si basa sull’autoregolazione e sui processi metacognitivi per esaminare le opzioni di scelta e padroneggiare le decisioni. Il crescente interesse per le competenze decisionali e per le caratteristiche richieste nei contesti lavorativi ha recentemente incontrato il paradigma interventistico della psicologia, che si sta chiedendo se si tratti di componenti stabili o se alcuni programmi di formazione possano migliorarli.
Strategie decisionali, alcune evidenze
Saper prendere “buone decisioni” è una delle strategie fondamentali per essere efficaci in tutti gli ambiti della nostra vita, sia privata che professionale.
■ I recenti progressi nella ricerca sul Decision-Making hanno dimostrato che esistono differenze sostanziali nella capacità di evitare errori cognitivi e nella modalità di effettuazione delle scelte (Bruine de Bruin et al., 2007; Appelt et al., 2011; Weller & Tikir, 2011; Weller et al., 2015): conoscere a fondo quali sono le strategie migliori permette di orientarsi meglio e imparare ad adottare le tecniche più efficaci.
■ La ricerca ha anche identificato differenze individuali nelle risposte razionali (Miller & Byrnes, 2001; Bruine de Bruin, 2005; Parker & Fischhoff, 2005): comprendere quali sono le proprie risposte e quali meccanismi si nascondono dietro le nostre scelte quotidiane, ci permette di interrompere pratiche inefficaci e iniziare ad adottare pratiche più corrette.
■ La definizione di Decision-Making Skills considera le stesse potenzialmente sviluppabili e quindi migliorabili; non esiste un blocco al cambiamento e nemmeno ostacoli insormontabili, anzi, chiunque, dedicandosi al tema, può darsi obiettivi sfidanti e modificare le proprie strategie decisionali fino al raggiungimento di un livello ottimale.
■ La modalità di prendere le decisioni in un’organizzazione è una componente essenziale della Job Performance (Ceschi et al., 2017): non curarsene a sufficienza può provocare danni anche molto gravi, quali il non rispetto dei tempi, il mancato raggiungimento di risultati previsti, la necessità di recuperare risorse a causa di scelte sbagliate o mal fatte, l’inefficacia dei gruppi decisionali, etc.
Pensieri lenti e veloci
Nel suo celebre testo “Pensieri lenti e veloci” Daniel Kahneman (2011), psicologo premio Nobel per l’economia nel 2002, spiega come la mente umana sia caratterizzata da due processi di pensiero ben distinti: uno veloce e intuitivo (Sistema 1) e uno maggiormente lento, ma anche più logico e riflessivo (Sistema 2). Se il Sistema 1 presiede all’attività cognitiva automatica e involontaria, il Sistema 2 entra in azione quando dobbiamo svolgere compiti che richiedono maggior concentrazione e autocontrollo. Secondo Kahneman, quando pensiamo a noi stessi, solitamente ci identifichiamo – spesso erroneamente – con il Sistema 2, il sé conscio e raziocinante che ha delle convinzioni, opera delle scelte e decide cosa pensare e cosa fare. Prendere decisioni è dunque un compito cognitivo che si avvale di dati tutt’altro che oggettivi.
Parafrasando Kahneman, possiamo affermare che la nostra mente è come un computer straordinariamente potente, non troppo veloce rispetto ai tradizionali parametri di misurazione dell’hardware, ma capace di rappresentare la struttura del mondo con vari tipi di connessioni associative in una vasta rete di idee eterogenee.
Euristiche e bias cognitivi
Decidere è un processo faticoso: ogni volta che siamo di fronte ad una scelta mettiamo in atto uno o più sforzi cognitivi che assorbono le nostre energie e quando incombono scadenze serrate o il tempo a nostra disposizione scarseggia, la stanchezza inevitabilmente aumenta. Proprio per ridurre la fatica e arrivare velocemente ad una decisione finiamo per affidarci ad euristiche o scorciatoie di pensiero che se da un lato offrono l’interessante opportunità di scegliere senza eccessivo impegno, dall’altro potrebbero farci cadere in indesiderati e controproducenti bias cognitivi (errori di pensiero). Si stima che i bias e le euristiche ad oggi riconosciuti siano oltre 200. Tutto questo, oltre ad essere disfunzionale per il decisore e il sistema organizzativo, rischia di allontanarci da decisioni efficaci nel lungo termine.
Esempio di bias #1: Ancoraggio
Per anchoring (ancoraggio) si intende quel fenomeno secondo cui, dovendo fornire una valutazione di una data situazione, il soggetto utilizza un punto di riferimento, detto “àncora” mentale. Molto spesso l’àncora è costituita da un evento noto: può essere un elemento familiare o proveniente da una fonte autorevole o esperta (Wilson et al., 1996). Successivamente, si procede all’accomodamento, ovvero si passa alla fase di analisi e di integrazione di tutte le informazioni disponibili. n altre parole, nella presa di decisioni si tende a essere influenzati dalle informazioni fornite inizialmente, cioè dalle caratteristiche della situazione all’interno della quale viene richiesto un giudizio.
Esempio di bias #2: Avversione alla perdita
Il concetto di «avversione alla perdita» costituisce uno dei contributi più significativi della psicologia all’economia comportamentale, infatti, rappresenta l’idea che le perdite incombano molto di più sull’individuo rispetto ai guadagni (Kahneman & Tversky, 1979). Ciò significa che la maggior parte delle persone nel prendere decisioni è più motivata a contenere, quando non evitare del tutto, una perdita anziché realizzare un guadagno.
Vi è un rischio di perdita e di guadagno in ogni scelta compiuta nel quotidiano e nell’attività lavorativa tale situazione compare continuamente: gli investitori che valutano una start-up, gli avvocati che si chiedono se intraprendere una causa, i politici che devono decidere se candidarsi, tutti si trovano a fronteggiare possibilità di vittoria piuttosto che di sconfitta.
Chi soffre di un’estrema avversione alla perdita, ovvero quando la paura di perdere è più forte del piacere di vincere, viene indotto talvolta a rifiutare opportunità molto favorevoli.
Il rumore nei giudizi individuali
Kahneman e colleghi (2021) definiscono il “rumore” (noise) come la variabilità indesiderata dei giudizi, che può portare ad errori di valutazione e quindi a cattive decisioni. Secondo gli studiosi, se si vogliono prendere decisioni migliori sulle cose che contano, è necessario porre particolare attenzione alla riduzione del rumore. Se consideriamo il bias come un insieme di giudizi che si muovono in una stessa direzione, quando questi vengono eliminati, ciò che rimane sono i giudizi divergenti, ovvero il rumore. All’interno dei contesti lavorativi Kahneman definisce “rumore di sistema” il rumore osservato nelle organizzazioni che impiegano diversi professionisti per prendere decisioni professionali, che tuttavia richiederebbero previsioni accurate.
Il rumore di sistema può essere valutato e quantificato, senza conoscere il valore vero ed universale, verificando e analizzando i giudizi indipendenti dei professionisti, che possono richiamare l’attenzione sulle carenze di abilità o formazione. In breve: dove c’è giudizio c’è rumore, e quindi possibilità di errore. Le organizzazioni stesse tendono ad ignorare o sopprimere le divergenze di opinione tra gli esperti al loro interno, poiché, secondo una prospettiva organizzativa, il rumore dato dai disaccordi può essere fonte d’imbarazzo.
Esistono due diverse tipologie di rumore:
- noise (rumore di livello): è la variabilità dei giudizi medi espressi da individui diversi. Una delle fonti è l’ambiguità delle scale di giudizio (parole come “probabile” o il numero “4” su una scala da 0 a 6″ significano cose diverse per persone diverse);
- pattern noise (rumore di modello): è la differenza nelle risposte personali, dove individui diversi possono differire nelle loro opinioni, dal momento che le loro risposte, come la loro personalità, sono individuali. Alcune di queste differenze riflettono principi e valori dei soggetti.
Il debiasing
In letteratura, l’intervento per migliorare le competenze decisionali è chiamato debiasing che punta a migliorare la consapevolezza nei processi decisionali, rivolgendosi ai soggetti per gestire incongruenze logiche e percezioni incoerenti (Gerling, 2009). Composto da diverse tecniche, il debiasing aiuta le persone a prendere in considerazione nuove informazioni durante il processo decisionale, che potrebbero favorire la generazione di soluzioni diverse ed evitare euristiche e pregiudizi.
References
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Bruine de Bruin, W., Parker, A. M., & Fischhoff, B., (2007). Individual differences in adult decision-making competence. Journal of Personality and Social Psychology, 92(5), 938-956.
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